TopLegal 2023: i professionisti più quotati nel settore del diritto Penale d’Impresa

Anche nell’anno 2023 l’avv. Marco Micheli è presente nella Classifica TopLegal dei migliori professionisti d’Italia nel settore del diritto penale d’impresa (in particolare del diritto ambientale, industriale e salute; commerciale e societario); la sua posizione è, peraltro, in ascesa rispetto alla precedente classifica.

Una importante conferma che premia l’impegno e gli sforzi da sempre profusi nello svolgimento della professione, il lavoro di team e l’attenzione al rapporto col cliente.

Classifica TopLegal 2021: i professionisti più quotati dal mercato (Penale d’Impresa)

Classifica TopLegal Penale d’impresa 2021

 

Anche quest’anno l’avv. Marco Micheli è stato riconosciuto come uno dei migliori professionisti nel settore del diritto penale d’impresa (in ambito ambientale, industriale, della salute, commerciale e societario), secondo le classifiche TopLegal.

Un meritato riconoscimento per l’impegno, la passione e la dedizione profusi nella professione in 30 anni di attività.

Anniversario del 25 aprile: I professori che si opposero al Duce

Un grande gesto di coraggio e di autonomia intellettuale da ricordare nel giorno della Liberazione.

Anche questo 25 aprile, il secondo della pandemia, verrà celebrato un po’ in sordina.

Eppure la memoria della Liberazione resta densa di significato. Perché ci aiuta a esser consapevoli delle grandi conquiste democratiche e liberali di cui oggi godiamo.

Per esempio, nel settore dell’Università. Questo è il primo anno in cui l’Italia ha un dicastero a essa dedicato (Ministero dell’Università e della Ricerca), presieduto dalla Ministra Maria Cristina Messa. Ma com’era gestita l’Università durante il Regime?

Facciamo un passo indietro.

Novant’anni fa lo Stato Fascista diede una spinta in più alla realizzazione del suo disegno totalitarista.

Nel 1931 le Università divennero veri e propri strumenti di propaganda, mezzi di creazione del consenso e di lotta al pensiero dissenziente.

«I professori di ruolo e i professori incaricati nei Regi Istituti d’Istruzione Superiore» furono obbligati a giurare che avrebbero adempiuto a tutti i doveri accademici «col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al Regime Fascista» e che non sarebbero mai appartenuti ad «associazioni o partiti, la cui attività non si concilii coi doveri dell’ufficio», ossia con quelli posti dal Regime.

Chi non giura è rovinato: perde la cattedra, la liquidazione, la pensione, viene emarginato e tacciato d’essere antitaliano.

Fisici, matematici, ingegneri, architetti, filosofi, letterati, storici, giuristi, scienziati di ogni genere devono impegnarsi solennemente a non concepire idee, a non fare scoperte che in qualche modo contrastino con i principi e i fini della dittatura.

La stragran parte dei professori accettò l’imposizione. Molti per convinzione, altri perché preferirono la carriera alla coscienza.

Vi fu chi, «con la folta barba bianca bagnata dalle lacrime», confessò: «coprirò di vergogna tutta la mia opera di scrittore e di pensatore, ma non posso mettere sul lastrico i miei figlioli giovinetti» (Giuseppe Lombardo Radice). Chi cedette, portandosi dietro per tutta la vita un cruccio costante (Giuseppe Rensi) e chi si sottomise con un “firmo perché padre di famiglia!” (Francesco Lemmi).

Qualcuno, dopo quarant’anni, sentendosi ancora umiliato, ammise che la povertà lo aveva spaventato più della guerra (Arturo Carlo Jemolo). Un altro disse che non poteva lasciare, perché l’insegnamento era «il suo posto di combattimento», ma proseguì i suoi anni con «l’animo straziato» (Piero Calamandrei). Altri giurarono con riserva (espressa), scrivendo al Rettore che «in alcun modo avrebbero modificato l’indirizzo del proprio insegnamento» (Alessandro Levi e Tullio Levi-Civita).

Un critico letterario, disgustato, giurò con un gesto teatrale di spregio (ma giurò): la mano rivestita di un guanto per non contaminarsi con la firma; la penna gettata sul tavolo subito dopo, con calamaio rovesciato e schizzi d’inchiostro sul tavolo (Alfredo Galletti).

Uno sostenne addirittura che «il vero atto di coraggio consisteva nel giurare» (Tullio Ascarelli).

Ancora, vi fu chi non giurò, ma espresse il rifiuto senza guardare in faccia il Regime, trovandosi un commodus discessus (Vittorio Emanuele Orlando, già Presidente del Consiglio dopo il disastro di Caporetto, andò in pensione anticipatamente).

Palmiro Togliatti, guida storica comunista, considerò che restare in cattedra fosse «estremamente utile per il partito e per la causa dell’antifascismo». E i professori di sinistra giurarono.

Papa Pio XI disapprovò il giuramento; alla fine, però, lo consentì, ma con la riserva (interiore) di non contraddire i principi della Chiesa. E anche i docenti cattolici firmarono.

Gaetano Salvemini, esule già dal 1925, tuonò contro questa generale genuflessione: «Nessun professore di storia contemporanea, nessun professore di italiano, nessuno di coloro che in passato s’erano vantati di essere socialisti aveva sacrificato lo stipendio alle convinzioni così baldanzosamente esibite in tempi di bonaccia».

Ma, in questo campo d’erba comune e di giunchi spezzati, sbocciò qualche bel fiore.

Vito Volterra (fisica) non appena ricevette l’invito a presentarsi per il giuramento, lo respinse senza esitazione, non potendo «in coscienza» aderirvi.

Bartolo Nigrisoli (chirurgia), esortato a firmare dal Rettore, rispose: «Giuramento simile io non mi sento di farlo e non lo faccio».

Mario Carrara (antropologia criminale e medicina legale) scrisse al Ministro: «Abituato all’attribuire al giuramento la serietà dovuta, non ho sentito di potermi impegnare a dare intonazione, orientamento, finalità politiche alla mia attività didattica».

E con loro questi altri pochi professori coraggiosi: Edoardo Ruffini (storia del diritto), Giuseppe Antonio Borgese (estetica), Ernesto Buonaiuti (storia del cristianesimo), Aldo Capitini (segretario-economo della Normale di Pisa), Gaetano De Sanctis (storia antica), Antonio De Viti De Marco (scienza delle finanze), Floriano Del Secolo (lettere, italianistica), Giorgio Errera (chimica), Cesare Goretti (filosofia del diritto), Giorgio Levi Della Vida (lingue semitiche), Fabio Luzzatto (diritto civile), Piero Martinetti (filosofia), Errico Presutti (diritto amministrativo), Francesco Ruffini (diritto ecclesiastico), Lionello Venturi (storia dell’arte).

Uomini liberi che, in solitudine, attanagliati dal Regime, hanno saputo rinunciare a tutto per difendere la propria moralità e la propria coscienza.

In questo 25 aprile ricordiamo i loro nomi.

È GIUSTO DIFENDERE UN FEMMINICIDA?

Un’avvocatessa di Pordenone per motivi etici rifiuta la difesa di un uomo accusato di aver ucciso la compagna. Ma chi invece accetta l’incarico non va criticato: riafferma lo Stato di diritto e le garanzie fondamentali, anche per le vittime e per gli innocenti.

 

Rispetto questa scelta e, come penalista, trovo sacrosanto il diritto di non accettare un mandato difensivo conferito in via fiduciaria, qualunque ne sia la ragione.

Tuttavia, la lettura dei quotidiani di questi giorni mi allarma.

Titoli come “Uccide la compagna a coltellate – L’avvocata si rifiuta di difenderlo” sembrano compiacersi della scelta della legale, come se il colpevole di un tale assassinio non meritasse di essere difeso e il rifiuto oppostogli dalla prima fosse un atto eticamente giusto.

I reati – tutti – puniscono comportamenti brutti, in certi casi bruttissimi (si pensi a quello di cui stiamo parlando, ma anche ad altri, terribili, come per esempio le stragi, gli stermini).

L’avvocato, nel processo penale, non difende mai il reato.

Disapprovarlo sul piano etico solo perché ha accettato di difendere chi è accusato di aver commesso un fatto odioso (disapprovazione del tutto estranea alle parole dell’avv. Rovere, sia chiaro) è un atteggiamento miope e pericoloso, perché mette in discussione il diritto di difesa. Del colpevole, ma anche dell’innocente.

Il 17 maggio 1976 ebbe inizio a Torino, davanti alla Corte d’Assise, il primo importante processo alle Brigate Rosse.

Gli imputati, non riconoscendo l’autorità dello Stato (“la rivoluzione non si processa”, proclamavano), revocarono i propri difensori e minacciarono di morte qualunque avvocato accettasse di difenderli d’ufficio.

La giustizia ne risultò paralizzata: nessun legale era disposto ad accettare l’incarico e il processo non si poteva fare. Il terrore regnava.

Il Presidente della Corte si rivolse allora al Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino, l’avv. Fulvio Croce.

Questi, con grande coraggio, insieme ad altri suoi colleghi consiglieri, accettò di assumere la difesa d’ufficio dei brigatisti.

L’avv. Croce iniziò a difenderli, esponendosi a un rischio gravissimo.

Nelle udienze che seguirono, mentre con determinazione tutelava la posizione processuale e i diritti degli imputati, questi dalle gabbie lo dileggiavano e gli inviavano minacce spaventose.

Il 28 aprile 1977, a processo in corso, in un pomeriggio di pioggia, mentre rientrava nel suo studio, fu ucciso dalle Brigate Rosse.

Fulvio Croce ci ha lasciato in eredità un insegnamento fondamentale: il diritto di difesa vola alto e non ha nulla a che fare con i giudizi etici su ciò che è bene o ciò che è male, prescinde del tutto dalla maggiore o minore odiosità del delitto e dal concetto di colpevolezza o di innocenza.

Esso è un pilastro della civiltà del diritto. Un valore talmente elevato che, per riaffermarlo, un uomo ha sacrificato la sua vita.

 

E, d’altro canto, chi disapprova l’avvocato che accetta di difendere l’accusato di un grave delitto, di fatto, condanna l’imputato prima ancora che il processo sia iniziato.

Nel dicembre 1969, Pietro Valpreda fu presentato dalle Istituzioni e dai mass media (qui il video) come il chiaro autore della strage terroristica di Piazza Fontana. Il caso, per il mondo intero, era chiuso.

Si trattava di un crimine terribile (la bomba aveva ucciso 17 persone e ne aveva ferite orribilmente 88).

Valpreda nominò dei difensori che, nonostante ciò, accettarono.

Meritavano di essere disapprovati solo per questo?

Ebbene, la storia ci ha dimostrato che essi iniziarono a difendere un colpevole e finirono per aver difeso un innocente (Valpreda, estraneo ai fatti, fu assolto dai giudici e dagli storici).

Il 4 ottobre 1992 il piccolo Simone Allegretti, un bimbo di 4 anni e mezzo, fu ucciso nei pressi di Foligno. Pochi giorni dopo venne arrestato il suo assassino, tale Stefano Spilotros, che si autoaccusò. Un reo confesso, il caso sembrava risolto.

E invece no. Spilotros era un mitomane. Non c’entrava nulla. Il mostro di Foligno era un altro.

Il legale che all’inizio aveva accettato l’incarico difensivo doveva esser forse biasimato?

Certamente no.

Queste e tante altre storie dimostrano che la difesa degli imputati di reati eticamente odiosi va garantita, sempre. Si tratta di una irrinunciabile affermazione dello Stato di diritto, una garanzia fondamentale di giustizia. Per i colpevoli, ma anche per le vittime e per gli innocenti.